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honked back 21 May 2025 21:39 +0200
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I'm a systems engineer, and not even a good one.
I'm on the fediverse to have fun. So, if what you want to discuss with me is superficial, or boring, don't waste your time.
The LOL;) is the most important thing, down here.
Languages: EN, IT
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Gemini: gemini://gemini.abiscuola.com
Religion: Dudeism (I'm an officially ordained dude priest), pastafarianism.
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honked back 21 May 2025 21:39 +0200
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bonked 21 May 2025 19:09 +0200
original: The_Whore_of_Blahbylon@mastodon.social
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bonked 21 May 2025 13:26 +0200
original: uriel@keinpfusch.net
La vergogna e la provincia.
So benissimo che il caso di Garlasco viene strumentalizzato dalla stampa italiana — controllata in larga parte dagli industriali — per riempire le prime pagine e oscurare qualsiasi altro tema di rilievo. In particolare, il referendum: una questione cruciale, che però sparisce dalle homepage e dalle edizioni cartacee dei principali quotidiani filoconfindustriali. Tant’è vero che, su tre testate considerate centrali nel panorama informativo nazionale, del referendum non compare nemmeno un trafiletto. Al suo posto, spazio a un video di Chiara che sostiene un esame all’università. Pane e circo in versione 2.0. Il progetto “Cagnara” al suo apice.
E qui non si parla solo di distrazione mediatica, ma di un vero e proprio metodo. Il caso di cronaca nera viene ingigantito, iperanalizzato, ripulito e riproposto in formato binge-watching per tenere occupata l’opinione pubblica. Si crea un nemico, si costruisce un colpevole, si accende un dibattito acceso quanto sterile. E intanto, nel silenzio, passano decisioni, decreti e riforme che nessuno ha tempo di leggere — figurarsi contestare. Una delle cose più sorprendenti, in tutto questo rumore, è l’ostinazione con cui la famiglia della vittima continua a ripetere che è stato Alberto, punto e basta. Fine della discussione. La fermezza — quasi rabbiosa — con cui lo affermano è talmente sproporzionata da far sospettare, ai più maligni, che ci sia qualcosa da nascondere. Ma, onestamente, non credo che sia questo il nodo della questione. Piuttosto, sembra emergere un altro fenomeno: quando l'intero sistema — media, opinionisti, talk show, social — crea una verità emotiva condivisa, contraddirla diventa quasi un atto antisociale. E la famiglia, schiacciata tra dolore reale e pressione mediatica, finisce per fondersi con la narrazione ufficiale, alimentandola. Personalmente, non credo che ci sia del marcio sotto. Nessun complotto, nessun mistero sepolto da svelare con una torcia in mano. Quello che vedo all’opera è uno schema ben noto, quasi banale nella sua diffusione: il riflesso condizionato dell’orribile e abbrutita provincia italiana. Una dinamica sociale che si attiva ogni volta che una tragedia rompe la fragile facciata del “siamo gente perbene”. In questo caso, si chiama shame management — gestione della vergogna — e, accanto a questo, anche un non meno importante family management. Shame management, ovvero: essere l’assassino è una tragedia, certo. Ma una volta che sei in carcere, il problema in un certo senso “si sposta”. Dentro, sei fuori dal gioco sociale. Quelli che restano — la famiglia — sono quelli che pagano il conto simbolico. Essere il padre, la madre, il fratello o la sorella di un assassino o, peggio, di un complice... è un marchio. Una macchia che, in una piccola comunità, ti segue ovunque: al bar, dal parrucchiere, alle poste. Nessuno ti dice nulla apertamente, magari, ma lo sguardo cambia. E quello basta. Family management, invece, è la seconda gamba dello schema. La logica è semplice: bisogna delimitare il campo della vergogna. Isolarla. Fare in modo che tutto il male — l’omicidio, la follia, la devianza, l’orrore — venga attribuito interamente a “loro”, all’altra famiglia. Quella dell’accusato, quella dell’assassino designato. Solo così si può salvare l’onore, quello che ancora resta. La vergogna, in provincia, è una sostanza contagiosa: o riesci a tenerla al di là della staccionata, oppure finisce che si appiccica anche a te. E allora ecco che parte il meccanismo, quasi automatico: “è tutta colpa loro”, “noi non c’entriamo”, “noi siamo le vittime, punto”. È una dinamica brutale, e profondamente disumana. Non serve inventarsi oscure trame o doppi fondi misteriosi: basta conoscere un po’ l’Italia, quella vera, quella delle strade provinciali e dei pranzi della domenica, per sapere come funziona. Quando la realtà diventa ingestibile, l’unico modo per sopravvivere è riscriverla. O, per lo meno, redistribuire il peso di ciò che è successo. Quando la madre della vittima accusa senza esitazioni Alberto Stasi, non sta necessariamente coprendo un altro colpevole, né lasciando intendere di sapere qualcosa che non dice. Quella fermezza — che a tratti rasenta il dogma — non sembra nascere da una verità solida, ma da una necessità sociale. Sta cercando di dire, più o meno implicitamente: la vergogna è tutta dalla loro parte. È un atto di difesa identitaria, prima ancora che morale. In una comunità dove tutto si misura in reputazione, in decoro, in apparenza, attribuire tutto il male all’altra parte non è solo comodo: è vitale. Nel frattempo, però, le indagini, con il loro passo lento ma inesorabile, cominciano a sfiorare altri territori. Emergono nomi, legami, frequentazioni. Si parla del fratello della vittima, delle cugine, di amici e contatti ambigui. E quella sostanza maledetta — la vergogna, la colpa, il sospetto — comincia a oltrepassare il confine. Entra, anche se appena, nel perimetro della “famiglia perbene”. E questo, per un contesto come quello, è insostenibile. È qui che il meccanismo di shame management si irrigidisce: più le indagini si avvicinano all’area grigia della vittima e del suo entourage, più la narrazione ufficiale deve restare netta, impermeabile, impenetrabile. Non per giustizia, non per verità, ma per necessità sociale. Perché ammettere che il male possa avere radici condivise, che il disastro non sia stato importato da fuori ma cresciuto anche dentro casa, significherebbe crollare con tutta la facciata. E questo, nella provincia che vive di facciate, non è concepibile. C’è chi ipotizza che questo atteggiamento così rigido — questo rifiuto ostinato di qualsiasi ipotesi alternativa — serva, in fondo, a tutelare una posizione economica. Si dice, a mezza voce, che i familiari della vittima difendano la verità giudiziaria per non mettere a rischio il risarcimento già ottenuto. Un modo per blindare la propria posizione, per non rimettere tutto in discussione, anche sul piano patrimoniale. Personalmente, non mi sembra una spiegazione convincente. Se davvero l'assassino fosse un'altra persona, sarebbe comunque il nuovo colpevole a dover rispondere dei danni, anche in termini economici. Il risarcimento non verrebbe azzerato, ma riassegnato. E per i familiari della vittima, dal punto di vista pratico, cambierebbe poco. Il denaro non sparirebbe, cambierebbe solo chi è chiamato a pagarlo. E se davvero si tratta di uno scontro di reputazioni, allora non possiamo ignorare quello, sotterraneo ma feroce, tra i vecchi giudici e i nuovi. Ogni revisione del processo è, implicitamente, anche una revisione del lavoro di chi è venuto prima. E in un sistema che vive di prestigio, carriere, nomine e incastri silenziosi, questo scontro pesa. Pesa più di quanto si possa dire apertamente. Perché oggi salta fuori una manata di sangue sul muro — con il palmo chiaramente visibile, compatibile con una mano insanguinata — e ci si chiede: com’è possibile che nessuno l’abbia notata prima? Davvero nessuno l’ha vista, o semplicemente nessuno voleva vederla? E perché quel DNA maschile, trovato sotto le unghie della vittima, è stato ignorato così a lungo? Possibile che non sia stato oggetto di approfondimenti seri? Poi ci sono i testimoni, quelli che oggi vengono ascoltati ma che allora erano stati lasciati ai margini, o non considerati affatto. E c'è quel canale, finora mai dragato, dove — forse — sono state gettate le armi del delitto. Com'è possibile che per anni nessuno abbia sentito l’esigenza di scavare più a fondo, in senso letterale e figurato? Forse perché rimettere mano a tutto significherebbe, prima di tutto, ammettere che qualcosa è andato storto. E in certi ambienti, la verità giudiziaria vale più di quella fattuale: perché una sentenza, una volta scritta, costruisce realtà. Metterla in discussione non è solo un gesto tecnico, è un atto politico, simbolico. E per molti, anche un rischio di carriera. Anche dentro le procure e le caserme, dunque, si disegnano le stesse linee di faglia. Le stesse tribù. Da una parte “noi”, quelli che hanno indagato quindici anni fa, con i metodi, le risorse e la mentalità dell’epoca. Dall’altra “loro”, i nuovi periti, i nuovi investigatori, i nuovi tecnici — gente che arriva con strumenti aggiornati, un approccio diverso e, soprattutto, senza il peso di dover difendere decisioni passate. Ed è inevitabile che, a un certo punto, anche lì si ponga la questione della vergogna. Chi ha trascurato cosa? Chi ha chiuso gli occhi? Chi ha fatto un lavoro approssimativo, chi si è accontentato di una narrazione comoda? La domanda, magari, non verrà mai posta apertamente, ma aleggia negli uffici, nei corridoi, nei fascicoli rispolverati. Chi dovrà caricarsi il peso dell’errore, se errore c’è stato? Noi o loro? Perché rivedere un caso, di fatto, significa mettere in discussione il lavoro di altri colleghi in divisa o in toga. E non è solo una questione di professionalità, è anche una questione di appartenenza. Di reputazione interna. Di equilibrio di potere. Nessuno vuole passare per quello che ha sbagliato. Meglio, quando possibile, sostenere che si è fatto il massimo con i mezzi disponibili. E se proprio bisogna individuare una colpa, che ricada altrove. Sugli altri. Su loro. Al di là di tutto, prima ancora di cercare colpe o errori, forse bisognerebbe porsi una domanda più semplice e più profonda: quali sono i confini di una comunità? E quanto questi confini, invisibili ma rigidissimi, possono aver inciso nel momento cruciale delle prime indagini? Perché all'inizio tutto era in mano a una procura realmente locale, gestita da inquirenti realmente locali. Gente del posto. Uomini e donne delle forze dell’ordine di stanza nella stessa città, nella stessa rete sociale, talvolta negli stessi circoli o nelle stesse parrocchie. In una realtà come quella, dove le famiglie si conoscono da generazioni e i legami si intrecciano fittamente, è ingenuo pensare che si possa operare come se nulla di tutto ciò contasse. In provincia, i confini non sono solo geografici. Sono morali, affettivi, economici. E anche chi indaga, anche chi dovrebbe essere neutrale, non è immune: è legato agli uni o agli altri da uno, due, massimo tre gradi di separazione. Magari il carabiniere conosce il fratello dell'indagato. Magari il magistrato è stato a cena con un cugino della vittima. Non per corruzione, non per malafede. Semplicemente perché, in certi luoghi, è impossibile non essere parte della rete. E allora quei confini diventano legge non scritta. Qualcosa che tutti sentono, anche se nessuno la nomina. Una barriera morale che ti dice dove puoi andare e dove è meglio non spingerti troppo. Chi puoi interrogare a fondo e chi è meglio lasciar stare. Quali piste seguire con entusiasmo e quali, invece, archiviare in silenzio. Perché andare oltre certi limiti significa non solo indagare un delitto, ma incrinare equilibri secolari. E questo, in certe realtà, non si fa. In tutto questo, quello che NON si trova e' la cosa piu' importante. La giustizia. E i Referendum. Uriel Fanelli Il blog e' visibile dal Fediverso facendo il follow a: @uriel@keinpfusch.net Contatti:La vergogna e la provincia.
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bonked 21 May 2025 13:26 +0200
original: uriel@x.keinpfusch.net
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bonked 21 May 2025 07:41 +0200
original: SmudgeTheInsultCat@mas.to
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bonked 20 May 2025 16:26 +0200
original: uriel@x.keinpfusch.net
Plakar as backup solution looks rather nice: It's open source and free and does what restic does plus, it has a nice integrated web UI. I'll wait when 1.0.1 will be in OpenBSD (7.7 package 1.0.1beta13) and then I'll give it a shot. Restic works well enough for me, but trying another solution may be a good idea.
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bonked 18 May 2025 12:48 +0200
original: uriel@keinpfusch.net
La Nemesi.
Stamattina mi sono imbattuto nel gruppo Nemesi, proprio mentre preparavo una Sacher per celebrare la vittoria dell’Austria all'ESC (grande prova del controtenore, lo avevo messo al primo posto sin da subito).
Scorrendo qua e là tra articoli e interviste, ho iniziato a intravedere non solo la matrice politica del progetto, ma anche – e soprattutto – il motivo per cui tutte le politiche di integrazione dei migranti sono miseramente naufragate, persino in Paesi apparentemente modello come la Svezia. Il primo elemento da mettere sul tavolo è che l’operazione, sul piano politico, è chiaramente di matrice salviniana, o analoga. Nel senso peggiore del termine: si porta dietro quarant’anni di complesso di inferiorità verso la sinistra, e il risultato è che, ogni volta che aprono bocca, anziché articolare le proprie ragioni, si limitano ad attaccare le femministe di sinistra. Il meccanismo funzionerà – questo è certo – ma non per la forza delle idee: funzionerà per semplice riflesso condizionato, per l’irritazione che l’ultima ondata di femminismo genera ormai in ampie fasce della popolazione. Del resto, è lo stesso principio che ha portato al successo Trump e altri leader populisti: non vincono perché convincono, ma perché a molti piace vedere umiliata e sconfitta la sinistra. Stanno cioe' monetizzando l'antipatia suscitata dal mondo delle sinistre. Quanto al programma politico, siamo all’evanescenza. Funzionerebbe forse in un paese perfetto, dove la sinistra sia davvero il problema più grave da affrontare. Ma in qualsiasi altro contesto – cioè ovunque – si traduce in un governo pessimo che ottiene consensi solo per effetto di repulsione. Le poche volte in cui esprimono una posizione politica concreta – cioè quando avanzano richieste specifiche al governo – si intravede il vero pericolo. Perché lì toccano un nervo scoperto: individuano correttamente la vera ragione per cui le politiche migratorie, ovunque, sono fallite. E su questo va detta una verità scomoda ma ineludibile: Quello che esiste, invece, sono ondate di migrazione illegale che hanno investito quasi tutti i paesi europei, e ogni volta – ogni singola volta – la risposta dell’elettorato è stata uno spostamento a destra. Non per ideologia. Ma per reazione. Ma se davvero vogliamo parlare del fallimento delle politiche migratorie – fallimento che rende così potente e immediata l’affermazione “il primo pericolo per le donne sono gli immigrati” – dobbiamo fare uno sforzo in più.
Dobbiamo chiederci perché sono fallite. E, soprattutto, dobbiamo affidarci ai dati, non agli slogan. Perché se la risposta alla violenza è “colpa degli immigrati”, allora la domanda che dobbiamo porci è: perché lo Stato non è stato in grado di gestire l’immigrazione legale e di prevenire quella illegale? E se ogni volta che si parla di integrazione finiamo col discutere di criminalità, la vera questione è: quale integrazione è stata tentata, con quali strumenti, e con quali risultati concreti? Senza numeri, tutto questo resta fuffa ideologica.
Ma i numeri, purtroppo, parlano chiaro. Prendiamo ad esempio la Germania, dove la dinamica è chiarissima.
Prima del 2015, il numero di stupri registrati ogni anno si aggirava stabilmente tra i 7.000 e gli 8.000 casi. Poi arriva il 2015, l’anno dell’apertura delle frontiere: oltre un milione e mezzo di siriani e altri migranti accolti in pochi mesi. E nel 2016, secondo i dati ufficiali del Bundeskriminalamt, i casi di stupro salgono a circa 10.000. Sulla carta l’aumento può sembrare contenuto, ma basta guardare più da vicino per capire quanto sia fuorviante questo approccio: In termini assoluti, stiamo parlando di un incremento del 40-50% in un solo anno.
In una società avanzata, dove il crimine sessuale è statisticamente raro, è un’impennata colossale. In termini proporzionali, se si guarda all’incidenza sulla popolazione migrante, emerge qualcosa di ancora più significativo: E qui si trova il nocciolo del problema, e la chiave del fallimento strutturale delle politiche migratorie europee. Parliamo di fallimento inevitabile, e quasi matematico. Perché nelle società moderne, il tasso di criminalità grave – inclusi gli stupri – è molto basso. Questo significa che basta l’arrivo di un gruppo con un’incidenza criminale anche solo leggermente superiore per produrre un impatto sproporzionato. E se quel gruppo è ampio, giovane e composto in prevalenza da maschi, l’esito è praticamente scontato. E, sia chiaro: qui parliamo solo di stupri, perché il contesto è quello del gruppo Nemesi e del loro focus sulla sicurezza femminile. Non abbiamo nemmeno toccato altri reati – furti, rapine, aggressioni – dove la sproporzione, in molti casi, è persino più marcata. Far funzionare una politica migratoria di massa è, semplicemente, statisticamente impossibile. I paesi che ricevono i flussi migratori – Germania, Svezia, Francia, Italia – sono società sviluppate, caratterizzate da tassi di criminalità relativamente bassi e livelli di recidiva contenuti. In sistemi così “sensibili”, l’introduzione anche di una minuscola quantità di devianza ha un effetto distorsivo enorme. Facciamo un conto semplice: su un milione di migranti, se anche solo uno su mille è un criminale recidivo – cioè responsabile di due o tre reati – stiamo parlando di 1.000 individui moltiplicati per più atti ciascuno. E quel numero, da solo, è sufficiente a stravolgere le statistiche locali sui reati sessuali o violenti. Non serve un'invasione. Basta una frazione. Le politiche migratorie e di integrazione non possono funzionare. E questo non lo diciamo per ideologia. Lo dice l’esperienza concreta.
Nemmeno i paesi “maestri” del welfare – quelli scandinavi, che hanno investito miliardi in educazione, formazione e integrazione – sono riusciti a far funzionare queste politiche.
Anzi: proprio loro oggi sono tra i più colpiti dallo spostamento politico a destra. Ed è lì che nasce la forza delle cosiddette “femministe di destra”. Perché sanno che le politiche migratorie attuali sono condannate al fallimento. Sanno che chi dice il contrario genera fastidio, frustrazione e senso di pericolo. E sanno soprattutto che la sinistra – troppo impegnata a non sembrare “razzista” – non sa come replicare. Rimane in silenzio. O peggio: nega l’evidenza. E ogni negazione, ogni minimizzazione, non fa che rafforzare la loro narrazione. Un esempio lampante di come la discussione venga deviata è quando una donna che si lamenta dell’aumento degli stupri in seguito alla migrazione illegale riceve la risposta: “Ma anche i connazionali stuprano.” La mia domanda è semplice: Se prima c’erano solo i “connazionali” e si registravano 7.000 stupri all’anno, e oggi, con l’arrivo degli immigrati, si arriva a 10.000 casi, significa che la situazione è peggiorata significativamente. Allora, a cosa serve ripetere ossessivamente che “anche i connazionali stuprano”?
In che modo gli stupri commessi da cittadini autoctoni mitigano l’aggravarsi delle condizioni di sicurezza? Solo accettando l’assurda idea che uno stupro commesso da un europeo possa “annullare” o “de-stuprare” una vittima di uno straniero, quella risposta avrebbe un senso. Ma ovviamente, non è così. Il punto è semplice e inoppugnabile: Il punto cruciale che rende oggi politicamente convincenti le “femministe di destra” è questo: Quando una persona si rivolge a un politico dicendo “mi sento in pericolo”, e questo timore coincide con un effettivo aumento degli stupri, mettersi a discutere della struttura socioeconomica o psicologica della sua percezione è semplicemente stupido. È un esercizio accademico del tutto fuori luogo. È come se qualcuno chiamasse i pompieri gridando “c’è un incendio!”, e la centrale rispondesse con una dissertazione sul fatto che l’incendio sia reale o frutto di una percezione distorta: “Guardi, innanzitutto il suo e' un campione statistico di un solo edificio. E questo lo rende poco rappresentativo. Ma se poi calcoliamo il chi-square.... “ Non funziona così. Se qualcuno urla “al fuoco!”, tu mandi una camionetta.
Punto. Non ci si aspetta che chi chiama i vigili del fuoco sia un esperto di combustione, termodinamica o edilizia. Ci si aspetta solo che segnali un pericolo. E quel segnale, lo si prende sul serio. Allo stesso modo, non serve che le donne del gruppo Nemesi abbiano un dottorato in criminologia, sociologia o statistica.
Se un gruppo di donne urla che oggi ci sono più stupri di ieri, e i dati lo confermano, il punto è chiuso: ci sono più stupri di ieri. Qualcuno ha gridato “al fuoco”. Tu, Stato, mandi la camionetta. Non discuti sul significato di “fuoco”. E' semplice. In questo senso, credo che le femministe del progetto Nemesis siano, in fondo, di scarso spessore. Come accade quasi sempre con le formazioni di destra, non brillano né per profondità di pensiero né per visione politica strutturata. Ma hanno una competenza straordinaria:
sanno monetizzare ogni singolo errore ideologico dei loro avversari. E poiché di errori ce ne sono a bizzeffe, le considero pericolose, in senso politico. Non per ciò che propongono — perché in fondo non propongono quasi nulla —
ma per ciò che riescono a ottenere semplicemente sfruttando l'imbecillita' di chi dovrebbe contrastarle. Uriel Fanelli Il blog e' visibile dal Fediverso facendo il follow a: @uriel@keinpfusch.net Contatti:La Nemesi.
non esiste alcun vento di destra che si sta abbattendo sull’Occidente.
è sufficiente che una minuscola percentuale dei nuovi arrivati commetta reati sessuali per alterare drasticamente le statistiche nazionali.
e in che modo questo giustifica un peggioramento della situazione?
l’arrivo massiccio di stranieri ha peggiorato il numero di reati sessuali.
Ricordare a qualcuno che “potrebbe anche stuprarti un tedesco” non fa altro che ignorare il problema concreto, e non migliora in alcun modo la percezione reale del rischio.
absc
bonked 18 May 2025 12:48 +0200
original: uriel@x.keinpfusch.net
absc
bonked 18 May 2025 08:17 +0200
original: ttuegel@functional.cafe
Software devs are so bad at estimation that there is a whole methodology/movement based on refusing to estimate, but devs report the time they have saved by using LLMs, and I’m supposed to take that number seriously?
absc
honked back 15 May 2025 14:57 +0200
in reply to: https://keinpfusch.net/api/posts/wfpiu8r57h
re: Ministri cialtroni o sgommate cinamatografiche?
Ma tu vuoi mettere se facessero un telefilm su Cocco Bill? Con le zuffe e i salamoni vermoni e trottalemme fatto in CGI vero????re: Ministri cialtroni o sgommate cinamatografiche?
absc
bonked 15 May 2025 12:56 +0200
original: uriel@keinpfusch.net
A quanto pare, e' obbligatorio parlarne.
Ma onestamente, a me di Garlasco non frega nulla. Cosi' parlero' di Garlasco per parlare del rapporto tra inchieste e giornalismo. Perche' c'e' una cosa che mi lascia molto perplesso. Ovvero il fatto che le inchieste su crimini che vengono molto seguire dalla stampa, apparentemente vanno sempre a farfalle.
Sia chiaro: non c'ero. Quindi non si di preciso chi abbia ucciso quella povera ragazza. Cosi' come non c'ero in casa Scazzi. E via dicendo, per tutte le vicende criminali che la stampa ha reso famose. Ma diciamo pure che io dubiti, a questo punto. Se una teoria accusatoria non consente di ritrovare l'arma del delitto e una teoria diversa porta al ritrovamento, e ripeto “se”, allora siamo in una situazione imbarazzante. E ci siamo comunque, anche se la vecchia sentenza di colpevolezza non cambiasse: non puo' essere che, per diciotto anni, se qualcuno avesse chiesto agli investigatori “ma avete controllato quel canale”, la risposta sarebbe “ehm, no, ma perche', cosa doveva esserci?”. Qui pero' bisogna essere razionali: la giustizia italiana, per quanto malmessa, non puo' essere tutta cosi'. Non puo' essere che ogni indagine lasci punti aperti, sciatteria investigativa, questioni aperte e sentenze ambigue e illogiche. Se cosi' fosse nessuno pagherebbe un avvocato, nessuno se ne fiderebbe, nessuno chiamerebbe la polizia di fronte ad un reato. Quindi, anche se fossimo nel caso vergognoso di uno Stasi innocente , o che a Bibbiano non sia mai successo nulla, o che lo zio contadino non sia il colpevole, il problema e' questo: almeno in media la giustizia italiana deve funzionare, altrimenti non esisterebbe piu'. Ma se partiamo da quest'ipotesi, come mai sui giornali e sui media vediamo i grandi processi venire riaperti,e. a volte con dei dubbi ragionevoli? La mia risposta e' , ovviamente, un'ipotesi: Quale sarebbe, di preciso, il meccanismo? Cosa succede ad un'inchiesta che finisce sotto le luci della stampa? Beh, innanzitutto notiamo la comparsa tardiva di testimoni. Come la spiego? Immaginate di arrivare in piena tempesta stampa. Il paesino dove abitate e' diviso in colpevolisti e innocentisti, tutti assatanati dal clamore della stampa, e voi arrivate e fate pendere la bilancia in una direzione che non piace al 50% del paese. Verrete linciati, sottoposti a pettegolezzi sulle possibili cause occulte della vostra testimonianza, eccetera. Siete sicuri che testimoniereste, sapendo che diventerete l' “infame” per meta' del paese del delitto Scazzi? E ancora peggio, pensate quel caso di omicidio nel quale fu sottoposto allo scan del DNA una popolazione intera. Dopo una mossa del genere, c'e' il rischio che trovarsi invischiati in quella vicenda significhi trovarsi con una scansione generazionale che andra' a controllare chi e' figlio di chi nella vostra famiglia. Siamo certi che sia questo che un testimone vuole? E' ovvio che una scansione del genere abbia gettato una pesantissima coltre di omerta' sul posto. Chi vuole davvero che qualcuno vada a verificare tutte le nascite della sua famiglia? In diretta TV? Qui il problema non e' semplicemente che gli inquirenti si trovano spinti dall'opinione pubblica a trovare un colpevole qualsiasi. Qui il problema e' che l'ambiente circostante viene perturbato dalla presenza del giornalismo, e tutti – dai testimoni ai sospetti – devono cominciare a comportarsi in maniera differente dal solito. Non male. E' dai tempi di Mani Pulite che sono molto perplesso verso quelle “ratline” che consentono, sistematicamente, al segreto istruttorio di sfuggire dalle procure e finire sui giornali. La mia argomentazione e' che se un magistrato non puo' nemmeno sperare che le sue carte rimangano sulla sua scrivania, e non puo' sapere in quali mani finiranno (solo giornalisti? giornalisti e altri? solo altri?) il magistrato stesso non sia nelle condizioni di lavorare. Anche senza citare il giudice Livatino, ucciso quando la mafia venne a sapere – rompendo il segreto istruttorio, cioe' – su cosa intendeva indagare, vorrei capire con quale oggettivita' abbiano potuto operare i magistrati di Mani Pulite, dal momento che la popolazione si aspettava di vedere la pelle di un paio di cinghialoni al giorno. Non per nulla fu un disastro, nel senso che delle cifre “rubate” non si recupero' quasi nulla, e che ci furono centinaia e centinaia di innocenti che finirono in carcere senza motivo. E questa, onestamente, e' la sola cosa che mi viene da dire sul caso Garlasco. E su tutti gli altri, anche. Uriel Fanelli Il blog e' visibile dal Fediverso facendo il follow a: @uriel@keinpfusch.net Contatti:A quanto pare, e' obbligatorio parlarne.
la pressione dei mass media interferisce con la serenita' e l'obiettivita' delle indagini e dei processi, al punto da inficiarne il funzionamento – nella grande maggioranza dei casi.
Qui dobbiamo rispondere ad una domanda che ha senso statistico: le inchieste di grande rilievo giornalistico sono un buon campione statistico casuale , oppure no? Perche' se lo sono, allora la giustizia italiana e' cosi' inutile che converebbe non interpellarla nemmeno. Oppure, se non lo sono, occorre che in qualche modo il rilievo giornalistico stia perturbando – in peggio – l'andamento delle inchieste.
A mio avviso, cioe', ho molte ragioni di sospettare che il solo intervento massiccio della stampa e dei mass media sia sufficiente a mandare in merda quasi tutte le inchieste, che invece si sarebbero concluse meglio se gli investigatori fossero stati lasciati lavorare in pace.
absc
bonked 15 May 2025 12:56 +0200
original: uriel@x.keinpfusch.net